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STORIA
DELLA SCIENZA
Il fallimento dell'atomica tedesca
Marco Cattaneo
Proprio
di questi giorni, 65 anni fa, studiando la radioattività
dell'uranio, Otto Hahn – un chimico berlinese
– e il suo collaboratore Fritz Strassmann
si trovavano di fronte a uno strano fenomeno. Bombardavano
l'uranio, l'elemento chimico di numero atomico 92,
con neutroni, le particelle neutre contenute nei
nuclei atomici. E inaspettatamente scoprirono, tra
i prodotti di reazione, tracce di bario, un elemento
il cui peso atomico è circa la metà
di quello dell'uranio.
In capo a poche settimane, grazie alla collega Lise
Meitner, rifugiatasi a Stoccolma per sfuggire alle
persecuzioni antisemite, potevano annunciare la
scoperta di un fenomeno tutto nuovo, che proprio
la Meitner battezzò "fissione nucleare".
Poco importa che Fermi e il gruppo di via Panisperna
avessero sfiorato il risultato già da qualche
anno, come pure Frédéric Joliot-Curie
e i suoi collaboratori a Parigi. Quella che valse
a Otto Hahn il Nobel per la fisica nel 1944, è
una delle scoperte più sensazionali e al
tempo stesso inquietanti del XX secolo.
Nella fissione, infatti, un nucleo di uranio colpito
da un neutrone si spezza in due nuclei più
piccoli, ma una parte della massa complessiva si
trasforma in energia – una grande quantità
di energia – secondo la più famosa
delle formule di Einstein, E = mc2. In capo a pochi
mesi, tutti i mostri sacri della fisica dell'epoca,
da Einstein a Niels Bohr e John Wheeler, da Joliot
a Werner Heisenberg, sanno che dalla fissione di
un nucleo di uranio si liberano anche diversi neutroni.
E, se questi andassero a colpire altri nuclei di
uranio, si avrebbe una nuova liberazione di energia,
e altri neutroni. E così via. In quella che
tutti chiamano "reazione a catena". Se
la reazione procedesse in maniera abbastanza spedita
in una quantità sufficiente di uranio si
sprigionerebbe un'enorme quantità di energia
in un tempo brevissimo. Qualcosa che nemmeno il
più ottimista dei militari potrebbe sperare.
Il secondo atto di questa storia si consuma alla
fine dell'estate 1939. Il 2 agosto, da Princeton,
Albert Einstein scrive a Franklin D. Roosevelt una
lettera accorata, in cui espone gli straordinari
sviluppi della fisica del nucleo, che hanno dischiuso
la possibilità di costruire bombe "estremamente
potenti, di un nuovo tipo". Ed esprime il suo
turbamento all'idea che la Germania di Hitler possa
avere a disposizione simili armi. Meno di due mesi
dopo, appena iniziata la seconda guerra mondiale,
a Berlino vengono convocati i migliori fisici tedeschi,
perché partecipino allo sforzo bellico. Kurt
Diebner, esperto dell'esercito per le ricerche in
fisica nucleare, arruola Hahn, ovviamente, ma soprattutto
quel Werner Heisenberg che, ancora giovanissimo,
aveva stupito il mondo con la meccanica quantistica
e il famoso principio di indeterminazione, che gli
aveva fruttato il Nobel a nemmeno 32 anni. Da quel
momento, i tedeschi iniziano a lavorare alla bomba
atomica. Hanno quasi un anno di anticipo rispetto
agli americani, che comunque non vedranno adeguatamente
finanziate le loro ricerche per un bel pezzo. Hanno
dalla loro il migliore fisico teorico sulla piazza,
o almeno uno dei migliori, lo scopritore della fissione
e, cosa che non guasta, mezzi a profusione.
Eppure, quasi sei anni più tardi, i fisici
del Progetto Manhattan riusciranno in un'impresa
tecnologica straordinaria, anche se l'immagine della
scienza ne subisce ancora oggi le conseguenze. Il
6 agosto 1945 la prima bomba atomica della storia,
se si eccettua il test di Alamogordo compiuto un
paio di settimane prima, viene lanciata su Hiroshima,
radendola al suolo e procurando innumerevoli vittime
nella popolazione. La domanda che da oltre mezzo
secolo ci si pone è quasi scontata. Perché
i fisici tedeschi non arrivarono all'atomica? Nonostante
gli sforzi dei migliori storici, questa domanda
non ha una risposta, e probabilmente non l'avrà
mai. O, prevedibilmente, ne ha più di una.
Nei decenni, in molti l'hanno cercata in un preciso
episodio: l'incontro tra Niels Bohr e Werner Heisenberg
a Copenhagen nel settembre del 1941. Heisenberg,
fiore all'occhiello del programma atomico tedesco,
reca visita al suo vecchio maestro nella Danimarca
occupata dalle truppe naziste. Per parlargli, dirà
dopo la guerra, delle inquietudini sue e dei suoi
colleghi all'idea di lavorare per Hitler a un'arma
così tremenda. I due passeggiano nel Faelled
Park all'imbrunire, quando Heisenberg accenna all'argomento,
ma Bohr si ritrae, e chiude quasi subito la conversazione,
e con essa l'incontro. Che cosa realmente si siano
detti in quell'occasione rimane un mistero, nonostante
le infinite ricostruzioni del dopoguerra. Nessuno
dei due avrebbe più affrontato serenamente
l'argomento, e Heisenberg, in particolare, ha dato
tante versioni diverse da non poterne trarre alcuna
conclusione certa. È un fatto, però,
che in capo a pochi mesi si sarebbero consumate
due svolte decisive per la costruzione dell'atomica.
Nel giugno 1942, mentre Roosevelt avviava il Progetto
Manhattan nei celebri laboratori di Los Alamos,
finanziando cospicuamente il programma diretto da
Robert Oppenheimer, a Berlino Albert Speer stringeva
i cordoni della borsa: alla ricerca nucleare sarebbero
andati pochi spiccioli. Il grosso dei fondi era
destinato al lavoro missilistico di Wernher von
Braun. Solo sei mesi più tardi, mentre i
fisici tedeschi si affannavano a un progetto che
avrebbe difficilmente partorito un reattore nucleare,
Enrico Fermi ne metteva in funzione uno, sotto le
gradinate dello stadio dell'Università di
Chicago. E se in Europa gli sforzi di Heisenberg
annaspavano sempre di più attorno a uno schema
che non avrebbe mai potuto portare all'atomica (e
non avrebbe mai prodotto una reazione a catena autosostenuta),
il lavoro di Los Alamos procedeva a gonfie vele
fino al successo.
L'epilogo della storia del fallimento tedesco ha
la scenografia di Farm Hall, una signorile villa
alle porte di Londra dove i membri del "club
dell'uranio" tedesco vennero tenuti prigionieri,
nella più assoluta segretezza, dalla caduta
della Germania fino alle bombe di Hiroshima e Nagasaki.
Non appena vennero informati del primo scoppio di
una bomba atomica, molti dei presenti caddero in
preda a crisi di nervi insospettabili, in scienziati
del loro calibro. Erano ancora convinti che, se
non c'erano riusciti loro, nessun altro avrebbe
saputo costruire una bomba all'uranio. Alla notizia,
Otto Hahn tentò quasi il suicidio. Heisenberg,
l'ex ragazzo prodigio della fisica mondiale, si
chiuse nella sua solitudine a rifare i conti. A
ripensare e ricalcolare quanto uranio era stato
necessario mettere insieme per arrivare al risultato.
Ancora una volta, le sue formule suggerirono una
risposta impressionante: una, forse due tonnellate.
In realtà, per ottenere una reazione a catena
incontrollata come quella della bomba di Hiroshima
bastavano 50 chilogrammi di uranio 235. Non di più.
Poche settimane più tardi, il "club
dell'uranio" si scioglieva, ma nessuno dei
protagonisti di quella infelice avventura scientifica
si sarebbe mai liberato del marchio del fallimento.
Forse, semplicemente, per una volta non erano stati
capaci di arrivare alla soluzione. |
Heisenberg
e il fallimento dell'atomica tedesca
Centre Culturel Français – Galliera
Lunedì 27 ottobre 2003
Ore 17.00
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